La notte
mandava odori di fieno e terra umida, mentre sopra la salita un manto di stelle
pareva un vortice di luci di natale.
Chino
spingeva la bici con forza, sudando e facendo attenzione alle siepi ed ai
fossi.
In quei
giorni ci si poteva aspettare qualsiasi cosa a qualunque ora, e non si sarebbe
stupito di trovarsi davanti il suo migliore amico, sten puntato, a minacciarlo
o a trucidarlo senza dire amen.
Per quello
stava andando alla spianata della Serra.
Per levarsi
da quel mondo che la vita gli aveva riservato, dopo anni di schiavenza in
cascina, la fidanzata incantonata a 16 anni e un figlio che stava venendo su
grande come la fame e poco o nulla da mangiare a casa.
Perché a 20
anni uno ha voglia di vivere e alzare la cresta, e questo andare in giro coi
ragazzini a rischiare la pelle e bruciare cascine che magari la prossima sarà
la tua , non gli andava proprio più giù.
Chino sapeva
cosa era la fatica, e sapeva le sette croste del pane, ed ognuna era una camicia
sudata e ossa rotte, come per comprare la bici, che aveva dovuto litigare con
padre e prendere ed andarsene una sera che era freddo e paglia umida.
Pure era
servita quella Bianchi, presa nuova dal concessionario di Cherasco e usata su e
giù per le stradette a tiraculo e una volta anche contro un carro aveva
bocciato, ma era festa e finì tutto a manate sulle spalle e a chi beveva prima
il litro.
Per
guadagnare qualche soldo aveva trovato lavoro come campè, che per chi non lo
sapesse è il mestiere di aprire e chiudere le chiuse e va fatto a qualsiasi ora
specie d’estate quando c’è il soffoco e le piante chiedono acqua come ubriache.
Per due anni
si era alzato alle 3 4 di notte, per quello quella sera nessuno si sarebbe
stupito di vederlo girare con la Bianchi.
Doveva
impagliarsela, e se tutto andava bene tra un anno avrebbe fatto vedere a tutti
come si vive.
Ne aveva
alto così con tutti e un pelo sullo stomaco che pochi alla sua età potevano
vantare.
Nel gruppo
dei partigiani in cui era, aveva sentito del lancio dei pacchi una sera che era
di guardia vicino alle staffette ed al comandante.
“Non solo viveri la prossima volta, anche
questi…” ( e intanto aveva scorto l’inequivocabile segno del pollice che
sfrega contro l’indice).
Bene aveva
fatto a farsi mandare un paio di volte, avendo lui la copertura del lavoro
notturno, e a riportare tutto senza spacchettare nulla, convincendo il compagno
che ci sarebbe stato da guadagnarci ad essere onesti, di non fare il babau e
rigare dritto.
Cesco, che
furbo come lui non era ma si fidava e aveva tre anni in meno, aveva capito al
volo e non si era fatto prendere a toccare nulla.
Per quello
mandarono avanti lui quella notte, lui solo che dava poco nell’occhio essendo
anche guardiano dei campi e addetto alle chiuse delle bealere.
“Come sempre, prendi e porta a casa nel
tascapane.Se vedi gente, spara o squaglia.Ma porta tutto, intesi?E non aprire!Mai!”
“Ma ce la faccio da solo?”
“Pacco piccolo ma importante, sulla
canna della bici sta tutto.”
Chino aveva parlato
solo a Rosina, più giovane di due anni ma sveglia e forte e coraggiosa, tutto
aveva detto, anche dei sei sette mesi almeno che non si sarebbero visti .
Dopo, se andava
bene, avrebbero fatto lusso.
Le sorelle ,
i fratelli e meno che meno il padre mai avrebbero dovuto saperlo.
Piuttosto
morto, ma non al padre, esempio di rigore e onestà che mai avrebbe capito quel
gesto.
Per quello
se la volle stringere di più quella sera , col piccolo che capiva tutto e
piangeva , pur vedendo il padre freddo e asciutto più di quello che era sempre..
Non incrociò
nessuno sino al bivio del Mottarotto, da
dove partiva la stradina per la spianata.
Qui gli
aerei alleati mandavano pacchi viveri in gran segreto e solo il comandante e
pochi altri sapevano tempi e modi.
Fu un caso che
lo mandassero solo, e fino all’ultimo pensò se dirlo a Cesco, ma poi si rivide
tutto, proprio tutto si rivide e pensò alla moglie e al figlio, e agli anni che sarebbero venuti e ai discorsi
di padre e madre e così preso l’ordine tirò dritto e nessun pensiero, se non
quello di riuscire.
Aveva avuto
pochi giorni per preparare tutto, ma era furbo e riuscì bene, a cominciare
dalla fascina dietro una siepe che sapeva, piena di rami fitti ma vuota dentro
per nascondere i soldi e il tascapane.
Tutto aveva previsto,
anche l’amico di Genova che lo avrebbe nascosto per sei mesi in una cantina
buia di via Prè, pagando s’intende, ma “se
tutto andava bene, quel buco te lo pago come un grand Hotel.”
La guerra
era alla fine, non riusciva ad immaginare un altro anno come quelli.
Sudava,
nella camicia bianca e nella vestimenta.
Non ci
sarebbe stato tempo di tornare a casa e
spiegare , bastava fare cosa si doveva, andare in bici fino a Bra, prendere il
vapore per Torino e qui per Genova.
La bici
l’avrebbe ritrovata Rosina, in un posto che sapevano dentro un boschetto di
albere.
Come morto
sarebbe stato e fino alla fine aveva pensato se non sarebbe stato meglio
fingere proprio questo, ma vide la faccenda complicarsi e lasciò perdere.
Non pensava
a nulla, quando vide il buio e il fresco dello slargo, a nulla quando accese il
fuoco di segnale.
“Basta che quei mangiacrauti non vedano”,
pensava, era il 1944 e faceva caldo a farsi prendere accanto ad un fuoco in
piena campagna alle due di notte.
Nel freddo e
nella luce gli riuscì per qualche istante di non pensare,di non immaginare alle ritorsioni che avrebbero potuto fare ai suoi.
Era la sua
occasione e avrebbe sacrificato l’ultima briciola di onore per averla.
Non fece
tempo ad accendere la Milit che un rombo , come un tuono, venne da lontano.
“Ci sono, Madonna delle grazie fa che ci sia
cosa si deve e ti regalo mille lire.No, duemila.”
Non fece
tempo a pentirsi dell’offerta, che qualcosa di giallo cadde dal cielo attaccato
al solito grosso paracadute.
Come fece a
venire se ne andò, e lui corse, corse proprio come ci fosse la vita in quel
pacco e lo guardò un istante prima di fare ciò che mai aveva fatto prima.
Come a
nascondersi dal peccato che andava a commettere, si mise dal cespuglio e lo
scartò con la grazia di chi sa le cose rare
ed irripetibili.
E sotto ai
giornali e i fogli di burocrazia li vide, belli e grandi che odoravano di
fresco, e toccarli era un piacere.
Li annusò e
li guardò per un istante che parve eterno, doveva capire che erano veri, che
non era uno scherzo e mentre li guardava, studiava in giro , sentendosi come un
lupo che ha azzannato la preda e non la vuole spartire con nessuno.
Tutto filò
liscio, nessuno si intromise e la pistola che aveva nelle braghe non servì a
nulla.
L’avrebbe
buttata prima di entrare in Bra, e da lì in avanti solo Dio con lui e quei
soldi.
Pur cercando
di mantenere un decoro, sudava fitto ora.
Sapeva che
se l’avessero pescato, partigiani o crucchi, l’avrebbero impalato dove era.
Ogni metro
gli costava sudore e fatica e capì bene quel era il prezzo dell’oro e che chi
aveva soldi in qualche modo se li era guadagnati, comunque.
Arrivò a Bra
che era l’alba quando la prima luce dona
forma e contorno alle cose .
Non si voltò
a guardare la bici , solo si preoccupò di nasconderla bene e che nessuno la
trovasse per almeno qualche giorno.
Poi, Rosina
l’avrebbe presa.
Camminando
nella solitudine della piazza, davanti alla pensilina, aspettò che la
biglietteria fosse aperta, fumando una sigaretta dopo l’altra.
Anche lì gli
andò bene, perché essere presi a venti anni con un tascapane di soldi c’era da
essere spediti piombati in Germania e ringraziare se non c’era del piombo
pronto subito da digerire per l’eternità.
Ma nessuno
passò, e dopo un quarto d’ora si presentò al bigliettaio, chiedendogli
asciutto:
“Genova, un biglietto.”
“Solo andata?”
Speriamo,
rispose.
(ndr : la bici protagonista di questa storia ( vera) , è proprio la Bianchi del 1942 raffigurata nelle fotografie)