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venerdì 13 maggio 2016

Un bel marrone


..."e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno
come le rose "
la canzone di Marinella, F.De Andrè.

Un bel marrone

 

La strada costeggiava il canale, dritta ed impertinente.

Monsù Dorta arrancava pedalando la vecchia bici Prina acquistata in tempo di guerra da un ciclista di Torino poi morto ammazzato.

Ai tempi non era che un impiegatuccio in carriera, ma avendo il gusto del bello e del raro si decise per quella bicicletta dal colore sgargiante oro con filettini rossi e fiamme bleu.

Si era in pieno tempo di guerra, tutti pensavano a salvare la pelle e guardavano poco a certi dettagli, ma essendo lui impiegato presso la fabbrica della corrente elettrica ed essendo essa fabbrica fondamentale  posta sotto il controllo tedesco, non ebbe guai.

Sapeva vivere e sapeva comportarsi:  non mancò mai di omaggiare le mogli dei graduati con qualche bottiglia nascosta al paesello e di imparare le regole fondamentali della grammatica tedesca.

Basta: per lui la guerra non fu altro che un lungo periodo di prova che diede i suoi frutti, portandolo ad essere promosso capo stazione della centrale di Verduno.

Nel frattempo le cose con la giovane  fidanzata Gina si erano messe per il meglio e coi soldi risparmiati avevano finalmente potuto sposarsi con piccolo viaggio di nozze a Sanremo.

Soldi per la casa, non ne sarebbero serviti: essendo lui capostazione aveva diritto all’alloggio insito alla centrale , ammobiliato e confortevole, più un guardiano tuttofare che viveva nel capanno al fondo.

Lasciare Torino per quel posto di canne e rane, non fu facile per nessuno, meno che meno per Gina, abituata alle strade di Torino ed ai lussi della città, pur bombardata.

Certo, lo stipendio è buono, ma che vita faremo qui?”

“C’è aria buona e salubre, staremo meglio vedrai.”

In realtà a quelle parole non credeva nemmeno lui , l’aria era pesante e d’estate le zanzare non davano tregua.

Per un poco andò avanti ed indietro al paese con la fidata Prina, tenuta lustra come un bimbo dal guardiano Tulu.

Tulu si che stava come il papa.

Oltre al buono e sicuro stipendio, all’alloggio gratuito, si procurava un bell’extra con la vendita del pesce .

Funzionava così: una volta la settimana si doveva pulire la grata che bloccava i tronchi e le impurità che passando nelle turbine avrebbero compromesso il macchinario.

Per questo si doveva svuotare la vasca e, con malizia e arte, si riusciva sempre a rimediare qualche decina di chili di pesce.

Le osterie del posto volevano tutti bene a Tulu e quando lo vedevano arrancare con la sgangheratissima bici a scatto fisso anteguerra, sorridevano.

Per anni l’osteria Maiolino di Roreto servì i “barbi della Centrale”.

Dorta lasciava fare: contento lui, pensava, contenti tutti.

Tulu , che fesso non era, capiva e ogni anguilla finita per caso nelle maglie della sua rete si trasformava in uno splendido carpione che la signora Gina sapeva cucinare  par suo.

Dopo 3 anni di sudate e di pedalate si decise: i soldi c’erano, andavano spesi!

Il viale alberato antistante un bel mattino accolse il rombo secco e preciso del 500 Guzzi con sidecar che Torta sognava da tempo.

La moglie sgranò tanto d’occhi e nemmeno una parola , ma solo una lacrima e l’emozione del primo giro sotto il sorriso sdentato di Tulu che faceva segno di si’ con la testa.

Fu con lei che l’estate successiva partirono per la Francia e Madama Gina, giunti sul colle di Tenda, si alzò per gridare agli astanti “ Viva la Guzzi”.

Le cose si mettevano bene.

Erano cominciati gli anni 50 e già qualcosa di benessere, ma solo qualcosa e per pochi.

A Gina cominciava  a stare stretta la vita isolata in campagna e i pomeriggi di nera solitudine quando il marito era impegnato nelle ispezioni dei canali.

Andiamocene. Chiedi il trasferimento.”

“Ma come si fa? E poi la paga è ottima.”

“Non c’è solo quella. Qui non si vive più.”

Dorta andò quindi dal gran capo a Cuneo, vestito col doppiopetto del matrimonio e il profumo all’acqua di colonia.

Parcheggiata la moto nel cortile antistante, salì le scale confortato dallo sguardo del portiere che certo lo aveva scambiato per qualche pezzo grosso.

Dorta aveva passato i 40 anni ma era bell’uomo ed alto, si faceva conoscere e rispettare.

L’ingegnere lo accolse benevolmente e da subito presero a discutere dell’andamento.

Va tutto bene, ma mia moglie , sa….”

“Non si trovano bene nella casa che noi vi offriamo? Benissimo. Potete cercarne una adatta al vostro comodo. Nessuno vi impone di restare colà.”

Insomma, tanto disse che alla fine Torta tornava più disperato di prima.

Andarsene gli spiaceva.

Una bella palazzina così, col guardiano-servitore, quando mai gli sarebbe ricapitata?

Con i soldi dello stipendio che accumulati rendevano una bella somma ogni mese, così che le vacanze estive erano automaticamente pagate.

Insomma, per qualche anno si restava lì.

Gina faticò a digerire la notizia , ma si arrese di fronte alle buone ragioni del marito.

Intanto la famiglia si stava allargando: Gina lo scoprì in Marzo e a quella notizia il marito trasalì.

Non si aspettava di diventare padre, ma la cosa lo riempì di gioia.

Pur con mille pensieri per la testa,  Gina cercò di zittirsi e di compiacere il marito che, a quanto pare, restando buono sarebbe diventato un gran capo anch’egli e avrebbe di certo ottenuto l’ufficio a Cuneo.

Passò l’estate e giunse l’inverno , rigido e freddo.

La piccola Gemma nacque in casa assistita dalla levatrice che, pur con la stufa accesa ed i riscaldamenti al massimo, faticava a scaldare la stanza.

Con questo freddo , stare vicino al canal e non le farà bene. Poi fate voi.”

“ E se la portassimo a Torino? Per un po? Dai miei…”

Non se ne parla. Siamo una famiglia e qui staremo.”

Dorta era perentorio.

Andò bene.

Basta, Gemma crebbe sana e forte e a 3 anni sapeva già parlare correttamente  e muoversi per la casa .

Anche troppo.

Ora Giuseppe Dorta sedeva a fianco della bici su un ceppo e lanciava un mazzo di fiori nel canale.

La moglie era rimasta a Torino.

Dopo l’esaurimento non era quasi più uscita di casa e nemmeno al cinema o per un viaggio si schiodava dal divano.

Troppe cose c’erano da digerire e nessuno, nemmeno più lui, forte come un toro, ce l’avrebbe fatta a purgarsi da un ricordo tanto brutto.

Aveva tutto davanti agli occhi e tutto sarebbe rimasto tale per sempre.

Insomma, un bel mattino di Aprile  si era alzato senza svegliare nessuno ed era partito per il consueto giro per i canali, più per formalità che per altro.

Occorreva compilare settimanalmente dei registri e segnalare eventuali irregolarità.

Quel mattino era bel tempo di primavera , così si avviò in bicicletta lungo la strada sterrata : nessuno si sarebbe svegliato al suono della Guzzi.

Mentre Gina dormiva della grossa, Gemma era ben sveglia  , ed avvedutasi della partenza del padre, decise di seguirlo come spesso faceva nei suoi giri.

Uscita sul balcone lo vide lontano e senza disperare scese le scale e prese a correre sul terrapieno.

Fu la questione di un momento.

Nessuno vide cosa accadde, ma ella fu in un lampo rapita dalle acque .

Gina si accorse della mancanza di Gemma solo un’ora più tardi, quando tutto era irreparabile.

Quando Dorta tornò dal giro verso il mezzogiorno, la Centrale era circondata da carabinieri ed un’ambulanza che mesta rimaneva inutilizzata accanto al portico all’ombra.

Dapprima volle pensare ad un forestiero, a Tulu, infine alla moglie ma quando tutti vedendolo sbiancarono e gli fecero luogo, si rese conto dell’immane sciagura.

Un giornalista, venuto da Bra con la vespa, gli sparò un flash in faccia mentre tutti lo fulminavano come a dirgli lascia stare.

La moglie piangeva sconsolata in preda al delirio mentre un medico cercava inutilmente di darle animo.

Dov’è Gemma?”

Tulu lo prese per il braccio e lo portò in garage.

Su un tavolo al centro giaceva la spoglia immobile di Gemma, coperta da un telo bianco.

Pareva davvero dormisse e non fosse per le labbra tumefatte e bluastre, pareva persino ridesse.

Dopo un momento Tulu spiegò a Torta l’isteria della moglie, i carabinieri che arrivavano e lui che lesto si apprestava a svuotare le vasche.

Una grata l’aveva trattenuta , quella più bassa a 6 metri.

Se no chissà dove sarebbe ora…”

Ma Dorta non sentiva più nulla, piangeva e bestemmiava.

Fino a sera non ricevette nessuno e anche i carabinieri furono comprensivi, rimandando le domande al giorno appresso.

Quando tutti se ne furono andati, restarono il prete e Gosio delle pompe funebri.

Capendo che non poteva esimersi si accordò col prete per la funzione mentre di Gosio ricordava solo le parole mielose e affettate “ Gliela faremo bella, vedrà, un bel marrone chiaro…”

Gli anni erano passati e molte cose erano mutate.

Da Cuneo furono  cortesi e discreti e non ci fu bisogno di molto perché venisse assegnato ad un ufficio a Torino di grande responsabilità .

Il primo anno era tornato, trovando tutto in ordine ma desolatamente vuoto.

Nessuno aveva accettato il posto, creando una superstizione sciocca che sarebbe durata degli anni.

Solo Tulu rimaneva a guardia delle grate mentre un addetto scendeva settimanalmente dalla città a gettare un occhio.

Quel mattino , vestito di tutto punto, era sceso dalla 1100 col suo mazzo di rose bianche e si era diretto al garage.

Trovatolo aperto, riconobbe la vecchia Prina , pur arrugginita.

Una gonfiata alle gomme e di nuovo, come tanti anni fa , lungo il canale.

Era scomparsa l’allegria, la voglia di vivere e di affrontare il domani.

Il sole splendeva inutile e fastidioso.

Piovesse, pensava.

I giorni, tutti uguali e pesanti come macigni, si succedevano inesorabili come condanne.

Gettando le rose , avrebbe voluto gettare anche altro, molto, tutto.

Ma un guizzo, antico come il nascere dei giorni e della vita, glielo impediva.

Forse un domani qualcosa sarebbe mutato, forse una luce nuova avrebbe spento quella fiamma che ancora ardeva e tanto bruciava.

Forse un giorno, vicino o lontano, la vita sarebbe diventata quel che dicono i poeti, o gli innamorati: bella.

Ma sotto quel sole, davanti a quelle acque torbide, difficile sarebbe stato il crederci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

venerdì 8 aprile 2016

La rama che frusta




Vorrei essere
lì con te
nella quiete che respiri.


Ma  qui devo restare
a farmi frustare dalla rama
che inesorabile colpisce.


E tanto farà,
che presto sarò con te
nella pace




Che qui non c'è.

venerdì 9 ottobre 2015

Io non seguo, supero!

La moglie giaceva davanti a lui, nel letto di ospedale.
Stupidamente ferma ed ostinatamente sorridente nel rigore della morte.
"Ancora due mesi, tre se va bene" gli disse il Gran Professore dopo la visita in ospedale.
Chiara non era fessa e aveva capito tutto.
Il pianto che fece in auto poco dopo mise fine a qualsiasi discorso.
Fedele al loro stile di vita non si sarebbe curata ma avrebbe vissuto al massimo ciò che immaginava le restasse da vivere.
Angelo avrebbe organizzato un viaggio con degli amici: niente di fuorivia , un bel viaggio nel sud Italia che lei tanto amava.
E proprio al ritorno dal viaggio, il peggioramento, la crisi e la falce che non perdona.
Ora davanti all'ancor bella moglie sdraiata nella bara, Angelo pensava a tutto ciò che di bello erano stati gli anni che li avevano uniti.
I bei viaggi, la casa che si erano studiati a tavolino essendo entrambi brillanti architetti.
Non avendo mai avuto bambini si erano goduti quella malinconia di stanza vuota riempendola con ciò che di bello la vita offriva e no, no davvero, nessun rimpianto per nulla.
Davanti agli amici che si accalcavano contriti opponeva un sorriso quasi demoniaco che molti scambiavano per crisi di nervi.
In realtà Angelo ricordava con fermezza ed assoluta volontà uno dei momenti più belli della loro vita insieme: l'incontro ed il corteggiamento al Liceo.
Chiara aveva due anni in meno e lui se la studiava giorno e notte , senza il coraggio di avvicinarla.
Tutti sapevano di questa passione nascosta , persino Chiara.
Passarono gli anni, venne la maturità.
Chiara sembrava un ricordo ormai sbiadito quando durante una mattina di bighellonata Angelo si imbattè nella classe di Chiara all'uscita dalla palestra nell'ora di ginnastica.
Gli ozii universitari avevano allentato la timidezza del giovane, e senza pensarci si intruppò alla scolaresca.
Per puro caso era venuto a sapere di un alunno che mai si era presentato , tale Rigotti, e nulla fu più facile di entrare in classe, sedersi accanto alla bella Chiara sotto lo sguardo attonito ma attento dei compagni, che tutto sapevano e tutto avrebbero immaginato quel mattino, tranne quel diversivo.
"Nemmeno io sapevo come sarebbe andata a finire" confessava agli amici che anni dopo rimembravano quell'episodio.
Entrata la professoressa di Inglese, all'immancabile appello sgranò tanto di occhi quando alla chiamata del Rigotti rispose Angelo.
"E ti pare il momento di presentarti?"
"Non sapevo fosse iniziata la scuola, da noi non arrivano nemmeno i giornali"
Insomma, da lì a mettersi a fumare con i piedi sul banco il passo fu breve.
"Ma da dove vieni? Fumi in classe e nemmeno segui?"
"Io non seguo, supero!!!!Wrooommmm!!!"
Detto fatto, Angelo, sigaretta in bocca, sfrecciava col banco a mezz'aria per la classe, tra lo sbellicarsi dei compagni e lo sguardo ammirato e divertito di Chiara.
" Rigotti! Fuori! Dal preside!"
Ormai era fatta, e fu facile uscire e defilarsi in strada.
Il caos che ne seguì e il coinvolgimento del vero Rigotti divennero storia da bar e ancora oggi vi è chi favoleggia sull'accaduto aggiungendo qui e là fatti inventati.
Chiara lo amò da quel giorno e ogni giorno con lui fu per lei una copia di quella mattina: calda, emozionante , surreale.


Il corteo si avviava al camposanto e solo lui era rimasto con la salma.
Gli addetti chiesero se potevano chiudere la bara e lui non ebbe esitazioni nel dire di si ed uscire dalla stanza.
Qualcosa ballava in lui come una piccola stella e non riusciva ancora a capire come sarebbe andata a finire, esattamente come tanti anni fa.
Era soddisfatto.
Sereno.
"Noi cominciamo ad andare.Ci vediamo in Chiesa."
Quando tutti furono partiti e anche l'auto funebre si avviava mesta , salì in auto.
"Perché no? " si disse ridacchiando.
La Chiesa e il camposanto erano dall'altra parte della città e si doveva percorrere una piccola tangenziale.
Dopo pochi minuti si accodò alla moglie e rimase parecchi minuti in silenzio.
Dall'avvallamento un camion rimorchio sopraggiungeva e quella piccola pietra dentro prese a ballare sempre più forte: era una risata sonora e piena.
Prese anche lui a ridere , mentre la mano scalava di marcia ed il motore ruggiva a pieni giri.
Gli dispiacque non avere una sigaretta, della bella musica.
Rimase  al fianco della moglie per parecchi istanti e in quell'istante estremo, sotto gli occhi esterrefatti degli autisti, la salutò ancora una volta:


"Io non seguo, supero".










martedì 4 agosto 2015

La pioggia è gioia: fine.





"Forse facciamo ancora in tempo.Vai a chiamare il maresciallo, e anche un prete, che non si sa mai."
"Il maresciallo va bene, ma il Prete per cosa? Manco morto quello voleva preti intorno.Tu sai dove andare?"
"C'è solo un posto dove può essere.Io vado là, vedi di prenderti un impermeabile , con questa pioggia c'è da schiattare."
Erano le cinque di mattina e l'autunno piovoso braidese stava infangando le strade e i cuori tanto avvezzi ai soffochi estivi con folate di vento e pioggia.
" Ma quando ti sei accorta che non c'era più?"
" Saranno state le 4, 4.15.Siamo tornati che erano le due, abbiamo parlato poi siamo andati a dormire."
"A dormire.Lasciamo perdere.Porcaccioni."
"A dormire, a dormire.Nello stato che era quel ragazzo, cosa poteva fare?Ad ogni modo, se voi due non gli facevate cosa gli avete fatto, a quest'ora non era ...."
"Se gli è successo qualcosa è colpa tua! Porcona!"
"Pregate voi che non sia già freddo che pende da qualche albero.Impretati buoni a nulla.Gente come voi non meritava un uomo come lui."
"Smettetela.Litigherete dopo.Ora andiamo a cercare mio padre.Se lo merita."
Bernardo partì a tutta birra col Motom che faceva scintille dalla marmitta.Piera inforcò la bicicletta e sparì anche lei nei turbinii della pioggia.
Le strade erano deserte. e le sirene che avrebbero annunciato l'inizio della giornata in fabbrica tacevano mute e umide.
Solo il carretto del lattaio scendeva con fare lento dalla salita del San Michele e Piera ne approfittò per domandare se avesse visto qualcuno salire poco prima.
Con un cenno l'uomo negò e si avviò per la discesa.
La pioggia non accennava a diminuire  e la luce fioca del fanale bastava a malapena ad illuminare la strada tra gli spruzzi.
Le ultime case si perdevano al principio della salita.
Un lungo ed immenso rettifilo si perdeva nella campagna sino all'America dei Boschi.
Piera se lo fece tutto col cuore in gola, sino ad arrivare all'osteria del bivio.
Qui lasciò la bici e si avviò col parapioggia in mano verso i boschi.
Non era Eroe e quelle stradette che si perdevano per le salite a tiraculo l'avrebbero persa ben presto, se non avesse visto in fondo alla radura un soprabito famigliare.
" Quel cretino.Se è ancora vivo lo ammazzo io."
Gli ultimi metri che portavano allo spiazzo ed al grande albero sembrò che tutta la pioggia del cielo si sfogasse proprio lì, in quel momento.
Piera appena vide la scena non osò più avvincinarsi.
Bernardo stava aiutando il padre a scendere dai tronchi vicini all' albero al quale stava per appendersi.
Ne aveva già portati due abbastanza grossi per salire e quel particolare, insieme alla corda che penzolava, fecero rabbrividire e svenire Piera.
Passarono pochi istanti,e  mentre si riaveva, come per incanto si materializzarono due persone accanto a lei.
Non era certa di essere ancora in sé, ma quella donna gli stava facendo segno di andare col mento, mentre prendeva per mano un ragazzino e lo portava via.
Fu il tempo di aprire gli occhi appannati dalla pioggia, per accorgersi che davanti a lei non c'era nulla.
Andrea era seduto sul tronco, lo sguardo perso nel vuoto.
Non parlava, non accennava a nulla.
Bernardo , come se fosse la cosa più naturale del mondo, aveva preso a slegare la corda dal tronco , e come fu nelle sue mani la gettò dal dirupo sottostante.
E bene fece, perché di lì a pochi minuti giunsero padre  e madre col Maresciallo.
"E allora? Son scherzi da fare?" chiosava il maresciallo.
Piera volle alzarsi e prima che Andrea riuscisse a mettere insieme due parole, lo prese sottobraccio e se lo trascinò in disparte.
Per molto parlarono i due, finchè il Maresciallo, convinto e rabbonito a non fare parole e denunce, non si avviò sotto l'ombrello verso la strada che riportava al paese.
Bernardo rimase ancora accanto al padre, senza dire nulla, fulminando con lo sguardo quelli che mai avrebbe accettato come nonni.
Piera si avvicinò e con lo sguardo disse a Bernardo che così andava bene, che poteva tornare a casa.
Bernardo pose un istante la mano sulla spalla del padre, poi corse via giù dalla stradetta coprendosi con la giacca blu.
Andrea continuava a guardare nel vuoto e per un attimo Piera temette qualsiasi gesto.
Poi lo vide piangere, e piangere e le lacrime che si confondevano con la pioggia sapevano di dolce e amaro assieme.
Per la prima volta Andrea si sentì meno solo e le pose un braccio a circondarla.
"Restiamo qui finchè vuoi, finchè non mettiamo le radici, finchè tutta la marmaglia che ti gira dentro non torna seppellita ai piedi di questo albero.Ma una volta uscita, la lasciamo qui.E non torniamo mai più."
"Si"
Passarono i minuti , quindi un'ora, e sempre pioveva e sempre Andrea senza dire una parola piangeva.
Piangeva per gli affetti che non aveva dato e non aveva ricevuto.
Piangeva per chi aveva ucciso e per chi non aveva potuto salvare.
Piangeva infine per sé, per le lacrime che non si era mai permesso di fare sgorgare.
Piangeva per il nero che vedeva davanti a sè.
E Piera gli teneva la mano ed era ancora una volta moglie, madre, amica e sorella.
Sopra di loro vibrò un tuono, secco e crepitante, e temendo il fulmine si alzarono per andare alla stradetta sotto.
Dal basso vedevano alcune nubi diradarsi e il farsi di una mattina che avrebbe portato sole sull'umido del legno del grande albero.
"Andiamo a casa.Ho un mucchio di lavoro da finire in officina.Qualcosa, noi due, faremo."
Non si stupì Piera per quel muro che aveva di nuovo alzato e che tanto somigliava a quello del figlio.
Un giorno forse avrebbe aperto una porta o teso una mano, per far visitare almeno a lei quello che davvero si celava dietro al suo sguardo .
Molte cose avrebbe voluto dirgli, ma sapeva che le parole con lui servivano e non servivano e tutto ciò che doveva fare senz'altro lo fece subito.
Alzandosi lo prese dunque sottobraccio e gli baciò la fronte.
Andrea, con un sorriso, si avviò a passo deciso giù dal sentiero.
Nell'allontanare un ramo che sporgeva sul sentiero la sua testa si voltò e contemplò ancora una volta la spianata.
La pioggia era cessata da poco e un rivolo gli  correva accanto al naso.
Che fosse di gioia, questo Piera lo avrebbe giurato.









venerdì 4 gennaio 2013

Pagato di mano.


Sei terra e mare.

Mare,
che non navigherò più,
il tiepido che dimentico.

Terra,
sulla quale fu bello camminare,
e stendersi a volte.
Verranno giorni, e notti,
e feste.
Tu gioirai e rabbrividirai,
lontana.
Verrà la Primavera,
e non saprà più di te,
del tuo sorriso.
La tua voce,
i tuoi fianchi e quei seni,
diventano presto ombra mattutina che muore.
Facendo l’amore,
giocammo alla morte,
e quasi ci riuscimmo.
Ora il silenzio,
tenebro compagno di nostalgia,
chiede conti che non tornano.
Come oste che reclama,
anche la vita
vuol debito saldato.
Cuore amato non cede,
chiede un sorriso,
una parola che non giunge.
Pagherà tutto, ben lo sa.
Salderà il passato,
pagando di mano.

venerdì 30 novembre 2012

Vecchia tigre

Avevi l'aria fiera,
vecchia tigre.

Non ti uccise
questa vita
che sapeva di gabbia.

Superba,
sapevi ancora incantare:
la Vita era in te.

Sapevi l'opera,
il canto,
il bel vivere.

Non la prigionia,
il Tempo malevolo,
ti sottrarranno quei tesori.

Su bianconeri di dama,
giocasti bene, con calma,
e sempre vincesti.

La lunga partita
è finita, vecchia tigre.

Senza rabbie,
Senza delusioni
Senza rimorsi.

Non c'è rivincita.
vecchia tigre:

la Dama nera sempre vince.
 

( in ricordo di Guglielmo B., grande amico e Maestro di dama).



martedì 6 novembre 2012

Il sogno, la pistola e la Gloria eterna.

Devo ad un amico fiorentino il rispetto che nutro per questo Marchio, fondato da Alfredo Focesi a Milano.
Per questo nel recuperare questo ferro che fu sogno , ultimo barlume di speranza, tocco con venerazione ciò che l'incuria e la non sapienza hanno alienato.
Sognavi ancora, Alfredo, sognavi e forse qualcosa è andato storto.
Un passato fatto di biciclette stupende, magnifiche macchine da vittoria e da macinar chilometri e la fede in qualcosa che non sapevi avrebbe portato a malora tanta gente.
Ma tu sognavi: chi può proibire un sogno ad un uomo?
I giornali, le notizie, qualcosa che non quadra da anni.
Non mi pronuncio.
Non so.
Immagino.
Immagino le tue mani già stanche passare in magazzino e dare una carezza come si darebbe ad un cucciolo, quei manubri, quelle congiunzioni a giglio che tanta fortuna hanno fatto.
Forse una fu proprio  su  quel manubrio, anche lui stampigliato per  la Gloria eterna.

Fino a quel 1956 questa sopravvissuta alla peggiore incuria prova che le cose in casa Focesi  si facevano bene e per durare.
Quale migliore testamento?
Quella Gloria nella quale qualcuno vuol credere che la rivoltellata ti abbia portato, tu l'hai scritta su mozzi, pedivelle, manubrii.

Piace ricordare i tuoi sogni che ancora corrono veloci per prati e città, un solo nome per essi: Gloria.
E se fu la tua mano armata a chiuderti gli occhi e fugare quei mali pensieri, non essa, non altro, potrà offuscare i sogni  che sapesti tramutare in ferro e Arte.
Ridi Alfredo, stavolta la Gloria è eterna .
Ancora, qui.

venerdì 2 marzo 2012

Formica rossa


Mi avessi avvisato,
(bastava poco, un cenno appena)
ti avrei ubriacata, ancora, tanto.

Merenda sarebbe stata
acciughe, aglio, olio
buone parole e allegria.

Vecchia formica rossa,
davanti a un fuoco di legna,
a lungo avremmo parlato.

Dalla tua voce
(insolente, canzonatoria, viva)
molte buone cose avrei udito.

Vecchi è bello diventarlo,
non esserlo,
sentenziavi triste.

La notte te l'ha portata,
la barottata secca
così desiderata.

Allegra formica rossa,
stavolta nella baratta,
non c'è chi si gratta.




(in Memoria di un'amica)

lunedì 26 dicembre 2011

Gli occhi di Andrea.


Fu durante il cenone di Natale che il Dottore si accorse che le cose si erano spinte troppo oltre, che qualcosa scivolava via adagio.
Fu vedendo gli sguardi compassionevoli e i sorrisi divertiti dei nipotini, che s'avvide di non essere al suo posto.
Non poteva sapere dei progetti delle figlie e dei loro generi, anch'essi dottori.
Ricordava di una visita da uno di questi, grande luminare.
Ricordava l'amarezza di quei sorrisi, ancora, del suo "non è nulla , Andrea", per poi appartarsi con una figlia e il genero.
Si stava spegnendo, glielo dicessero , buon Dio!
"Cosa ho?Parlate!"
"Ma nulla, papà, nulla.Stai tranquillo.Prendi le pastiglie."
"Ma cosa sono?"
"Non preoccuparti, ti fanno bene.Dormirai la notte."
"ma io dormo bene, che discorsi.Piuttosto, la mamma.Come sta?"
"è in vacanza.Torna presto.Tu riposa."

Sua moglie.
Gli mancava così tanto.
La sua bella Rosetta.
Ma cosa aveva sempre da fare al mare, in questa stagione poi.
Si sentiva solo, in lotta, in battaglia con tutti.
Superstite di una generazione abituata a parlarsi chiaro, in un Mondo che non era il suo ,da troppo.
Quanti anni che un amico non si faceva vivo, o erano mesi?
A volte le giornate parevano eterne, in un salotto che pareva cimitero, la luce filtrata da finestre di carcere.
Non provò più a uscire dalla porta, da quella volta che parve il peccato più grande voler sentire ancora una volta sotto i piedi terra, nelle narici il biancospino portato e trapiantato dal mare anni prima.
Quegli occhi, quel terrore , lo dissuasero per sempre.
Accettò che il sogno di vivere continuasse sotto un altro fondale, più cupo, di certo, ma sempre curioso.
Questa della curiosità era stata la costante della sua esistenza, riuscendo ad accettare morte, scomparse e un lavoro che non tutti i giorni voleva dire serenità e amore.
Sapeva i suoi anni, sapeva che la vita è un ciclo, chi più di lui lo avrebbe saputo accettare?
Solo, non tutto andava come i sogni vorrebbero.
Essi non contemplano il brutto, di questo se ne accorse quella sera.
Il brutto è qualcosa che ti sfugge, sono parole non capite e sguardi troppo lunghi, compassioni non cercate.
Il brutto è capire di non essere più padroni di sè, sono risvegli sempre troppo identici e quel senso di smarrimento che ti porterebbe a crederti in un altro mondo, non ci fosse qualcuno a ricordartelo ogni ora.
Il brutto è accorgersi che mai più torneranno quelle gioie terribili, la gioventù, il sentire quel tempo così libero e di lui essere padroni , padrone proprio, a volontà.
Quelle parole che tardavano a venire, e che gli facevano solo produrre sorrisi e parole di circostanza , quella era Morte e più di una volta i suoi occhi la sentirono .
Nemmeno le lacrime servirono ad allontanarla, anzi.
Fu durante quella maledetta cena e quel Natale che sentì tra i volti preoccupati dei commensali la parola "ricovero" e "casa di riposo", che prese la sua decisione.
Non sarebbe finito come gli altri, non lui.
Gli restava ancora un bricolo di forza e lucidità .
Prestissimo dveva fare, quel mattino stesso.
Fu mansueto e docile come tutti desideravano .
Sorrise sino alla fine, ringraziando per il panettone che graziosamente gli offrivano e sorseggiò quel vino tanto amato che sapeva essere l'ultimo.
Guardò tutti negli occhi, perchè tutti si ricordassero dei suoi, verdi e forti.
Quelli che videro prati e montagna, che innamorarono donne incantevoli e che donò, per caso e per desiderio, a quella nipote che amava.
Bella, solare, intelligente, buona.
Ecco, a lei, lei sola, diede una carezza che lo fece commuovere.
I suoi occhi erano salvi.
In lei sarebbero vissuti.
Poi si alzò e disse di dover riposare.
Il sottoscala era diventata la sua camera , più comoda e meno faticosa per chi doveva sorvegliarlo notte e giorno.
Da tempo ormai meditava e si andava preparando, così che le parole di quella sera gli diedero il coraggio che mancava.
Non nella notte, ma al mattino presto volle tirare fuori da sotto il letto la corda che aveva nascosto sotto un paio di pantaloni, in un angolo.
Era una corda di canapa, vecchia, forte.
Tastandola , dentro al cassetto, la sentì calda e amica.
Benissimo sarebbe andata.
Cantava un gallo, cominciava un nuovo giorno.
Breve, intenso, desiderato, giorno.
Pensò al dopo, ai visi sconvolti, al suo corpo esposto al pubblico ludibrio.
Ai suoi generi, che avrebbero chiamato Carabinieri e colleghi.
Facessero pure cosa volessero.
Ora, per poco che fosse, era tempo Suo.
Stranamente gli venne in mente la madre, che lo avrebbe disapprovato,lei sofferente e stoica sino all'ultimo sul letto di morte.
Non era della sua pasta.
A pensar bene, non era mai stato la Pasta di nessuno.
Ostinato e contario quel che bastava per essere maledetto dai più.
Anche quella volta lo avrebbero odiato.
Gli spiaceva solo per la nipotina, ma sapeva che sarebbe comunque rimasto poco, e quel poco era già perso.
Pensò un istante se pregare.
Poi, in linea con la sua vita, realizzò che tanto valeva sbrigarsi, di lì a poco sarebbe stato Altrove, e se Altrove c'era, sarebbe bastato parlare e guardare direttamente con l'eventuale interessato.
"Cinico maledetto"
Rise.
Le prime luci filtravano dalle imposte socchiuse e un raggio, tenue, colpì in pieno le sue pupille.
Non amò mai come allora quella vita che sino a quella sedia lo aveva condotto.
Piangeva, serio il volto.
Si sistemò bene la cravatta, rigida sotto la camicia azzurra e il gilet che amava tanto.
"Almeno un po' di eleganza" si disse.
Fu una fatica terribile annodare la corda al lampadario.
Non era bravo coi nodi, un chirurgo come lui.
Ora lo ammetteva, sperando che, almeno quello , sarebBe rimasto buon lavoro.
Tirò con prudenza e sentì robusto.
"Bene" volle dirsi.
Guardò la luce.
Guardò il letto.
Guardò le sue mani.
Poi fu un passo, fu la luce, la Libertà.

martedì 17 giugno 2008

Sergentmagiù, l'è rivà a la baita!


Mario Rigoni Stern ha finalmente raggiunto i suoi commilitoni persi qualche ora fa nella grande e bianca campagna russa.

Durante queste poche ore di vita, perchè poche sono davvero nel fluire dell'esistere, ha però avuto il tempo di regalarci bei libri.
Per completezza, li ricorderemo tutti:
Il sergente nella neve (1953)Il bosco degli urogalli (1962)Quota Albania (1971) Ritorno sul Don (1973)Storia diTönle(1978)Uomini, boschi e api (1980)L’anno della vittoria (1985)Un amore di confine (1986)Il libro degli animali (1990)Arboreo selvatico (1991)Compagno orsetto (1992)Aspettando l’alba (1994)Le stagioni di Giacomo (1995)Sentieri sotto la neve (1998)Il magico "Kolobok" e altri scritti (1999)Inverni lontani (1999)Tra due guerre e altre storie (2000)1915-1918 La guerra sugli Altipiani (2000)L'ultima partita a carte (2002)Storie dall'Altipiano (2003)L'Altipiano delle meraviglie con R. Costa (2004)Il sergente nella neve-Ritorno sul Don (2005)Aspettando l'alba e altri racconti (2005) .

Una produzione davvero prolifica, anche se il primo fra tutti, "Il sergente della neve", lascia per forza un brivido a chi lo legge.

Quella frase,"ghe riverè a la baita?" ripetuta con ossessione da uno dei suoi commilitoni,poi deceduto, rende bene l'angosciosa epopea che vedrà Mario salvarsi e tornare alla sua Asiago.

Me lo voglio immaginare così, da un altra parte.

Abbracciato e festeggiato da tanti suoi amici e compagni di sventura, come dopo una tormenta che tutto imbianca, per poi lasciare il cielo sereno e scevro dalle brutture che, inevitabili, mai mancano.

L'è rivà, sergentmagiù.