(Maino del 1910 modificata da donna, cerchi 28 3/8, sella Pullman in cuoio, leva rovesciata per frenaggio anteriore come da catalogo)
Ci fu un tempo nel quale la famiglia dei Cànova era la prima del paese.
I Cà nova devono questo nome ad un’antenata , Ghitina, che rimasta figlia sola di 3 fratelli morti per accidente, ereditò tutta la fortuna del padre, un ricco possidente.
Ghitina aveva allora neanche venti anni ed il padre decise di far dono a lei e al suo fidanzato di una stupenda casa appena fuori del paese.
Da allora e per due generazioni la famiglia visse ricca e prospera nel lusso che il paese e il tempo poteva offrire.
A quel tempo si vendevano forte pellami, a Bra, e Guglielmo, il figlio di Ghitina, lavorava giorno e notte alla conceria del padre che da piccola e con due operai era diventata una grande industria sulla strada per la Riva.
La moglie gli aveva dato un figlio, Mariolino: nulla pareva potesse andare meglio.
Venne la guerra, e con la guerra soldi a palate dalla vendita dei pellami che l’esercito continuava a chiedere per le commesse militari.
La fine fu una benedizione per quasi tutti gli italiani ma non per i Cà nova, che esaltati dai guadagni perpetrati a spese della povera gente, cercavano con ossessione una via che li portasse ancora più in alto.
Fu l’esponente del nuovo partito fascista, tale Guerra, che lo convinse che a sostenere questo partito ci sarebbe stato da guadagnarne per tutti, in tutti i sensi.
“Voi ci date un milione ora, e questo milione negli anni noi ve lo daremo centuplicato.Parola.”
Basta, tanto disse che Guglielmo sborsò l’enormità ( persino Mussolini gli telefonò a congratularsi, dicendo ..”qualsiasi cosa abbiate bisogno…”
Quello fu l’inizio dell’ascesa che porterà i Cànova ad estinguersi quasi del tutto.
Gugliemo , come era prevedibile, finì a Roma e non ci mise molto ad adattarsi al lusso ed alla vita che la sua nuova condizione gli forniva.
Mariolino e la moglie Cetta preferivano restare in Piemonte, e lui nulla ebbe da obiettare.
“Non sapete cosa perdete “diceva sempre alla famiglia ed ai paesani che lo circondavano certe domeniche chiedendo di Mussolini e della politica.
Ma di politica Guglielmo se ne curava poco.
A lui bastavano le commesse che l’esercito continuava a domandare e della sua fabbrica di pellami che stava diventando la più grande in italia.
Passarono gli anni, e con essi la giovinezza di Mariolino che imparava ad andare in bici sulla Maino del papà, una delle bici più lussuose del paese e che usava di nascosto solo quando lui era a Roma.
Perché anche avendo ora la Balilla e un autista, non dimenticava nulla dei suoi possedimenti , nemmeno una briciola sfuggita ad una domestica nella cucina.
Arrivò la guerra, arrivarono altre commesse e Guglielmo era contento come mai.
“Questa guerra porterà ricchezza all’Italia, e a lei caro Guglielmo” continuava a ricordare crapapelata.
Purtroppo le cose iniziarono ad andare storte nel 1943.
Guglielmo perse d’improvviso ogni fiducia e altrettanto fecero i suoi operai nella conceria appena fuori del paese.
Prudenzialmente decise di spostare la moglie il figlio ormai prossimo alle armi in un casolare sperduto su tra i monti , mentre lui avrebbe affrontato la cosa “da uomo, sino all’ultimo”.
Così decise di morire quando una ventina di operai, capeggiati dal comando partigiano, lo costrinsero al muro contro le pelli stese ad asciugare.
Non volle vomitare parole contro al mare di insulti che gli piovevano, non voleva sprecare quegli ultimi istanti.
Come suo padre , e così il padre di suo padre, aveva creduto nell’eterna salita, in una rimonta che affondava le radici nel fondo dei secoli.
Stavolta era andata così.
Pazienza, pensava.
Chissà Mariolino.
Ormai erano tutti spianati contro di lui e l’unica cosa che gli venne facile fu un sorriso al ricordo di Mariolino allegro, che scorrazzava per il prato davanti a casa.
Poi basta.
Cetta la presero che andava a prendere il latte dal margaro.
Forse fu lui a fare la spiata.
Nemmeno si accorse del mitra che la freddava in mezzo alla strada.
Mariolino si salvò per miracolo.
A causa di un’otite era partito per fare delle cure ad Acqui terme e , chiuso nell’albergo e registrato a nome falso, con una barba così, era sfuggito ai rastrellamenti partigiani che pure erano stati minuziosissimi.
La guerra era finita.
La famiglia, il patrimonio, erano perduti.
Per fortuna , dopo i primi giorni di terrore e di insulti, era riuscito a rientrare nella vecchia casa ormai diroccata.
Aveva una morosa, Tilde, che pochi mesi dopo avrebbe sposato e nel '47 gli avrebbe dato una bella bimba, Rosa.
Le feste, i balli, la grande allegria erano per lui fonte di continua tristezza e malinconia.
Non eran più suoi quegli anni, ma si consolava con la bella bimba che prendeva le caratteristiche del padre.
Chiusa, taciturna ma molto furba e arguta.
Quando venne il tempo per tilde di andare in bicicletta, Mario pensò alla vecchia Maino.
Era ancora là, appoggiata al fondo del garage oltre la macchia d’olio, unico ricordo dei tempi della Balilla.
La guardò.
“Chissà cosa direbbe il vecchio” pensò.
Le gomme tenevano ancora , e la ruggine era l’unica testimone delle due guerre che aveva visto.
Con gioia e con rabbia, si recò dal ciclista , che fu colto da stupore nel vedere quel mezzo.
”Ma è ancora lei?Oh Dio Santo.Questa bici ha una storia.Ma sei poi sicuro?”
“Vai avanti.“è un lavoro lungo.vai a casa, torna stasera.”
“ No, voglio vedere.Cose mie.”
“Sei ancora a tempo.Pensaci.Se vuoi una bici da ragazza te la do io.Me la pagherai quando puoi.”
“No, mai chiesto sconti, mai chiesto crediti.Ho la bici.pagherò la modifica.”
“Come vuoi.Parati solo gli occhi quando saldo.”
Dopo un mezzo pomeriggio, tagliando e abbassando, la vecchi Maino prese un aspetto inconsueto.Nel prezzo Burdeis ci mise anche due vecchi parafanghi sciancati che aveva adattato alla bell’è meglio.
Il carter mancava e a nulla valsero le sue insistenze.
“Si farà furba.è sempre mia figlia, o no?”
“Quanto devo?”
“Mille lire.Va bene?”
Dalla tasca Cànova tirò fuori i due grandi biglietti piegati come si conviene a qualcosa che conta, e senza fiatare li presentò al ciclista.
“Non garantisco vada dritta.Provala.”
Senza fiatare e senza girarsi inforcò la bici e sparì oltre la caserma.
Era orgoglioso per ciò che aveva fatto, e pensò alla faccia della bambina quando avrebbe visto la sua nuova bici.
Passarono gli anni.
Rosa era diventata una bella ragazza, slanciata, e avendo studiato si era impiegata al locale ospedale.
Ora usciva con un medico e il padre, vedendo l’antica gloria dei Cà nova risorgere, osservava inorgoglito la fiammante spider con la quale il futuro genero veniva a trovare la figlia.
Ma non scordava quel momento nel quale tutto parve scomparire , e con esso anche lui.
Per questo , anche nelle fredde sere invernali, inforcava la vetusta Maino e con la mantella girava per il paese.
A quelli che lo indicavano, leggendogli la vita del nonno e del padre, guardava con mestizia, dicendo, ma non a tutti, “la ruota può sempre girare”.
1 commento:
È sempre un piacere leggerti. Davvero una bella storia. Complimenti per la bici e per il racconto. Alla prossima.
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